Antonio Falci non poteva sapere. Perché io, non sapevo. Testuya Ishida è stato. E ora non è.
Non dirò nulla della vita di quest’uomo, perché scrivo dopo aver guardato solamente quello che ha dipinto, tra le immagini delle sue opere che scorrono nel suo sito uffciale (http://www.tetsuyaishida.jp/gallery/ ).
So solo che è morto, suicida. Da giovane, a trent’anni. Me l’ha scritto Antonio Falci, così, laconicamente.
“Cronaca di una morte annunciata”. Così è. Si può anche morire giovani, a trent’anni, senza perdersi nulla se il resto non è altro che nulla.
Non “Morto all’arrivo”, ma “Morto in partenza”. Per non avere nulla, e avere tutto. La pittura non basta. Perché la cronaca, pittura o altro, non è la salvezza, se pittura e il resto non sono che il nulla.
E per Ishida non c’è stato nient’altro che il nulla. Nella sua pittura, sprazzi di nulla nel nulla. Sprazzi di vita che non hanno fatto in tempo neanche a sgretolarsi, perché il nulla è nulla.
Il Nulla. Esso è (o non è) quella sensazione che ti assale la mattina, quando prendi coscienza di te e vorresti non averlo fatto.
Al Nulla ci arrivi attraverso una vita che è piatta, una vita di frantumi di vetro. Ogni scheggia è una vita. Ogni scheggia è il Nulla.
Ti assalgono i demoni. C’è n’è uno che si fa chiamare Nostalghia. Ti aggrappi alla sua bava, ma poi ti rendi conto che anch’esso è un miraggio, un traditore. Un affabulatore che trasforma ieri in oggi e oggi in oro. Ah, i tempi passati. Neanche a questo cede, l’uomo suicida per colpa del Nulla. Nella vita che avrebbe voluto, quando ancora c’erano il carrozzino e la scuola, Nostalghia ha già la meglio. Il pittore l’ha scelto, lascia che il demone si insinui, scarichi il suo seme sul pennello. Ansimando per il piacere, perché Ishida è nelle sue mani, nel presente e nel passato.
Poi, all’improvviso, arriva la Speranza. Entra sotto forma di un piccolo uomo. Un desiderio. Una donna. Una rivincita. Il desiderio di rinascere. Come un altro. Meglio di quello che si è, per poter disprezzare e vincere la Nostalghia. Un ritmo di vita, mesto, cerca di imporsi, nello sport ad esempio. Nella pallacanestro, nel baseball. Tuttavia, è un teatro dell’assurdo, meschino, riprovevole, al quale non si può appartenere se si è schiavi del Nulla.
“Ah, se potessi controllarle, quelle viscide escrescenze che masticano me, il mio corpo, il mio passato, il mio essere e quello che non sarò!”
“Nel corpo si cela forse l’energia che mi manca. Proverò a guardarmi dentro, fuori, attraverso, tra l’intrico dei miei pensieri, tra i colori della tela e l’immondizia della mia vita…”.
“Potrei forse viaggiare, andare, scoprire un altro Me, libero da quell’altro demone che dico Melanconia. Borse, zaini, sacchi.. tutto inutile, quel che resta sono io e Me, nel Nulla”.
E’ tutto inutile. Siamo nell’anno prima, a pochi mesi dalla liberazione. Solo allora nei quadri di Ishida compare l’Essenza. L’umore di tutti gli umori. Pasticcio vermiglio che ha dalla sua la forza del disgusto che provano gli uomini che muoiono. Il flusso rosso che libera il peccato, la forza del pentimento e la certezza della rinascita.
Allora Ishida è pronto. Prepara il suo trapasso. Lo rappresenta, come se fosse cronaca. Vi partecipa come se nulla, fino ad allora, fosse accaduto. Non ne gioisce, né lo lauda, come se fosse Nulla.
Perchè quello è.
Nulla, nient’altro che Nulla.
Tetsuya Ishida è nato nel giugno 1973 a Shizuoka. E’ morto suicida sotto un treno il 23 maggio 2005. La sua è una pittura che si può senz’altro definire ‘iper-realista’. Solo nella forma, però. La realtà che compare nella sua pittura ha solo marginalmente affinità con quella di tutti noi, vittime dell’odierna realtà. Nei suoi dipinti, infatti, si concretizza l’amara piattezza della vita, il rimorso di chi troppo ha riflettuto, la vergogna di essere.
Il Nulla.